Iole Ottazzi - Mnemopixel
12 febbraio 2008, ore 18.30 - cocktail
Mnemopixel
opere di Jole Ottazzi
prefazione di Roberta Valtorta
a cura di Franca Speranza
coordinamento: Giuseppe Esposito
presso Studio28
via Moretto da Brescia 28
Milano
durata mostra: 12 febbraio - 28 febbraio orari apertura: dal martedì al sabato 1100-1300 e 1700-1930
si ringrazia per l'allestimento:
architetti Rossana Raiteri e Fausto Novi
Università di Genova
architetti Rossana Raiteri e Fausto Novi
Università di Genova
Pixel in soccorso al passato
di Roberta Valtorta*
Il titolo della ricerca di Jole Ottazzi, “Mnemo-pixel” unisce in modo semplice memoria e tecnologia, e ci parla dell’intenzione dell’autrice.
Tutto il lavoro nasce da una serie di fotografie degli anni Quaranta trovate: l’acqua e il fango di una alluvione le hanno completamente alterate. Sono objects trouvés sopravvissuti. Perduti i colori, dispersi, deformati i contorni delle figure, intere parti delle immagini cancellate: Le muffe le hanno coperte e hanno imposto ai segni un nuovo governo, l’acqua e insieme i prodotti chimici hanno fatto di molte immagini un unico blocco, le scritte sul retro di una fotografia si sono impresse sull’altra. Il caos ora le affratella e le confonde, crea nuove inedite materie, sostituendosi a un ordine precedente, quello, semplice, di una serie di fotografie fra loro separate, di figure e situazioni diverse, nate in momenti lontani fra loro.
Come spesso è accaduto di fronte alla rovina, al caos, al decadere delle cose e, dunque, di fronte alla morte (il gesto artistico è, forse sempre, un agire ideale contro la morte), Jole Ottazzi decide di intervenire con un’opera di salvataggio delle immagini: non tanto di ciò che rappresentano, ma del corpo stesso delle immagini.
La rovina rivela la realtà delle cose. Il gesto del salvare, del resuscitare, del recuperare e del rilanciare verso nuovi significati ciò che è palesemente dominato dalla rovina, afferma la possibilità di andare contro il tempo e il sicuro mutare delle cose. Nel caso di questo lavoro, il tentativo è affidato al mezzo informatico, che intreccia alla dimensione della memoria interventi, interferenze formali, anche, potremmo dire, che conducono a una nuova lettura delle figure, degli spazi, dei segni. “Mnemo-pixel”, secondo il titolo individuato da Jole Ottazzi, che unendo una antica radice greca a un termine tecnico strettamente contemporaneo crea un ponte fra memoria e tecnologia.
Se questo lavoro fosse stato realizzato, immaginiamo, negli anni Settanta, anche nei primi anni Ottanta, molto probabilmente il disfacimento della materia e la morte delle immagini sarebbero stati presentati in quanto tali, come valori in sé portatori del senso del tempo e della fotografia stessa. In quegli anni la riflessione sulla natura delle materie della fotografia, sulla fisicità dell’oggetto fotografico e sul legame profondo della fotografia con il passare del tempo, era spesso al centro del lavoro degli artisti. Il sentimento di mutamento e di passaggio che caratterizzava quell’epoca era molto forte.
Oggi, sempre più coinvolti in una cultura della virtualità, guardiamo alla matericità della fotografia, alla sua fisicità e caducità, come a qualcosa che appartiene a un mondo passato. La tecnologia dunque corre in soccorso e rivitalizza la materia morente, ricostruisce le immagini perdute, conferendo nuovi significati.
Nel lavoro di Jole Ottazzi non vi è nostalgia dell’epoca rappresentata nelle vecchie immagini, non vi è dramma, ma il desiderio spontaneo di sperimentare quali variazioni, quali letture, quali sorprese, anche, l’intervento digitale possa oggi offrire. Le immagini che ne derivano sono sicuramente molto diverse dalle antiche fotografie di partenza: non solo a causa dei colori, dei contorni, degli inediti pieni e vuoti, chiari e scuri, delle aumentate dimensioni che hanno trasformato piccole fotografie in grandi tavole, quasi dipinti tecnologici, ma anche e soprattutto perché queste immagini sono mondi del tutto nuovi che si sono generati sul passato. Di esso percepiamo la traccia, lontana.
Quale sia il legame fra memoria e tecnologia è ciò che oggi ci troviamo a indagare. Quale rapporto intratterremo con la storia e con il passato costituisce un grande interrogativo. Azzerati nella dimensione vincente del presente, ci è difficile immaginare il futuro, il passato ci appare come un insieme di frammenti sparsi, affidati di volta in volta a significati mutevoli che scegliamo, pensiamo, oppure, semplicemente, ci accadono.
di Roberta Valtorta*
Il titolo della ricerca di Jole Ottazzi, “Mnemo-pixel” unisce in modo semplice memoria e tecnologia, e ci parla dell’intenzione dell’autrice.
Tutto il lavoro nasce da una serie di fotografie degli anni Quaranta trovate: l’acqua e il fango di una alluvione le hanno completamente alterate. Sono objects trouvés sopravvissuti. Perduti i colori, dispersi, deformati i contorni delle figure, intere parti delle immagini cancellate: Le muffe le hanno coperte e hanno imposto ai segni un nuovo governo, l’acqua e insieme i prodotti chimici hanno fatto di molte immagini un unico blocco, le scritte sul retro di una fotografia si sono impresse sull’altra. Il caos ora le affratella e le confonde, crea nuove inedite materie, sostituendosi a un ordine precedente, quello, semplice, di una serie di fotografie fra loro separate, di figure e situazioni diverse, nate in momenti lontani fra loro.
Come spesso è accaduto di fronte alla rovina, al caos, al decadere delle cose e, dunque, di fronte alla morte (il gesto artistico è, forse sempre, un agire ideale contro la morte), Jole Ottazzi decide di intervenire con un’opera di salvataggio delle immagini: non tanto di ciò che rappresentano, ma del corpo stesso delle immagini.
La rovina rivela la realtà delle cose. Il gesto del salvare, del resuscitare, del recuperare e del rilanciare verso nuovi significati ciò che è palesemente dominato dalla rovina, afferma la possibilità di andare contro il tempo e il sicuro mutare delle cose. Nel caso di questo lavoro, il tentativo è affidato al mezzo informatico, che intreccia alla dimensione della memoria interventi, interferenze formali, anche, potremmo dire, che conducono a una nuova lettura delle figure, degli spazi, dei segni. “Mnemo-pixel”, secondo il titolo individuato da Jole Ottazzi, che unendo una antica radice greca a un termine tecnico strettamente contemporaneo crea un ponte fra memoria e tecnologia.
Se questo lavoro fosse stato realizzato, immaginiamo, negli anni Settanta, anche nei primi anni Ottanta, molto probabilmente il disfacimento della materia e la morte delle immagini sarebbero stati presentati in quanto tali, come valori in sé portatori del senso del tempo e della fotografia stessa. In quegli anni la riflessione sulla natura delle materie della fotografia, sulla fisicità dell’oggetto fotografico e sul legame profondo della fotografia con il passare del tempo, era spesso al centro del lavoro degli artisti. Il sentimento di mutamento e di passaggio che caratterizzava quell’epoca era molto forte.
Oggi, sempre più coinvolti in una cultura della virtualità, guardiamo alla matericità della fotografia, alla sua fisicità e caducità, come a qualcosa che appartiene a un mondo passato. La tecnologia dunque corre in soccorso e rivitalizza la materia morente, ricostruisce le immagini perdute, conferendo nuovi significati.
Nel lavoro di Jole Ottazzi non vi è nostalgia dell’epoca rappresentata nelle vecchie immagini, non vi è dramma, ma il desiderio spontaneo di sperimentare quali variazioni, quali letture, quali sorprese, anche, l’intervento digitale possa oggi offrire. Le immagini che ne derivano sono sicuramente molto diverse dalle antiche fotografie di partenza: non solo a causa dei colori, dei contorni, degli inediti pieni e vuoti, chiari e scuri, delle aumentate dimensioni che hanno trasformato piccole fotografie in grandi tavole, quasi dipinti tecnologici, ma anche e soprattutto perché queste immagini sono mondi del tutto nuovi che si sono generati sul passato. Di esso percepiamo la traccia, lontana.
Quale sia il legame fra memoria e tecnologia è ciò che oggi ci troviamo a indagare. Quale rapporto intratterremo con la storia e con il passato costituisce un grande interrogativo. Azzerati nella dimensione vincente del presente, ci è difficile immaginare il futuro, il passato ci appare come un insieme di frammenti sparsi, affidati di volta in volta a significati mutevoli che scegliamo, pensiamo, oppure, semplicemente, ci accadono.
*Roberta Valtorta (Milano, 1952) è storico e critico della fotografia. Opera in questo campo dal 1976 e si occupa in particolare della fotografia come forma artistica, dei linguaggi della fotografia contemporanea, della fotografia come bene culturale, del legame fra fotografia e territorio. Ha tenuto molti corsi universitari a Milano, Udine, Roma ed è docente da oltre vent’anni presso il Centro Bauer di Milano-ex Umanitaria.
E’ direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo-Milano.
E’ direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo-Milano.
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